top of page
Don Nunzio Casati 1987/1997

 

Quando l’Ispettore - pensate, si chiamava don Bosco, ma Giovanni Battista - mi disse di lasciare Arese per venire a Sesto San Giovanni in Oratorio, mi sorprese e mi indispettì, perché ormai pensavo che la mia vita avesse preso la direzione dei ragazzi in difficoltà e che, altre proposte non mi sarebbero interessate. Inoltre mi indispettì perché la scelta di questo tipo di ragazzi, cioè quelli che venivano considerati “le mele marce”, mi rendeva soddisfatto e orgoglioso rispetto a chi lavorava con chi non
aveva bisogno del mio impegno e delle mie fatiche.
Andare in Oratorio per me significava entrare in una istituzione che si occupava dei cosiddetti ragazzi “normali”, per i quali non mi sentivo tagliato.
Così sono giunto a Sesto San Giovanni. Non avevo mai sperimentato per un tempo lungo - un anno almeno - la vita dell’Oratorio.   Da piccolo non lo frequentavo: abitavo in una “corte milanese”, che ben sostituiva l’Oratorio. Da salesiano ho fatto brevi esperienze di campeggio con i ragazzi di Brescia e due estati, comprese le vacanze natalizie, con don Claudio qui a Sesto.
Questo era il mio bagaglio di partenza. Misero! Tanto che l’incaricato ispettoriale di Pastorale Giovanile, don Ennio Ronchi, si premurò di darmi alcune dritte in un incontro, durante il quale presi molti appunti, che poi non mi servirono a nulla,
perché slegati dalla concretezza.   Ricordo che la mia preparazione a questo compito continuò in quello che avevo iniziato ad Arese:  rendere i Salmi in un linguaggio corrente e in forma dialogica. Un lavoro che effettivamente mi risultò utile nei dieci anni (1987-1997), che trascorsi in Oratorio a Sesto.
Ebbi un primo contatto con i ragazzi di Sesto al Campo-Scuola in Alta Val Formazza, ai Sabbioni.    Fu lì che notai impreparazione e disorganizzazione, accentuati dai disagi dell’alluvione: siamo evacuati in elicottero.
 

Anche in quella occasione presi molti appunti, perché mi sembrava troppo importante procedere con un minimo di progetto (duranteil primo anno di Oratorio preparai un quaderno da lasciare sempre sulla scrivania in ufficio con un titolo:    Progetto educativo dell’Oratorio; tutti erano invitati a scrivere le loro osservazioni; in pratica quasi nessuno, anche se il progetto unanno dopo era pronto).     La mia impreparazione mi consigliò di venire a Sesto con due settimane in anticipo: era il 4 settembre 1987.      Volevo infatti parlare insieme con il mio predecessore. Ma il 6 settembre non assicurò più la sua presenza costante. Così mi ritrovai immediatamente responsabilizzato.      Gli animatori assicuravano il pieno svolgimento delle Oratoriadi e un gruppo di ragazzi più grandi coordinavano lo "Spettacolissimo”, eredità di don Claudio.       Ma subito iniziarono i problemi con ragazzi provocatori. Ricordo bene le stecche del calciobalilla piegate, i furti continui albar (quello in Oratorio e l’altro sul campo di calcio), il tentativo di isolarmi in cortile per far vandalismo in salagiochi, la ricerca di luoghi per depositare spinelli, le richieste insistenti per utilizzare la macchina nel trasporto di sostanze illegali, la pretesa di denaro per riavere il breviario, la difficoltà di impostare il “momento di incontro” pomeridiano, la beffa della mezz’ora del sabato in chiesa (i ragazzi uscivano dall’Oratorio per rientrarvi attraverso il Centro Familiare), il numero striminzito di ragazzi durante i pomeriggi (ricordo la meraviglia di don Claudio che venne a trovarmi dopo circa un mesee alle 16.00 contò sei ragazzi in cortile), la corsa sui tetti dell’Oratorio col pericolo di cadere di sotto, l’entrata molestadi ragazzi provocatori durante la catechesi del Centro Giovanile, la minaccia con piccoli coltellini, pretendendo il “pizzo” di 100-200 lire a chi entrava.       Sono state occasioni di riflessione che mi fecero rivalutare l’Oratorio rispetto al Centro di Arese:  là c’erano soltanto ragazzi in difficoltà ed educatori appositamente preparati, qui invece la sfida era di mettere insieme ragazzi con problemi e i cosiddetti “normali”. Una sfida non sempre sostenuta neppure dai genitori “buoni”, che volevano l’ambiente protetto dai “cattivi”.    Lo stesso succedeva con gli animatori e i giovani del Centro Giovanile. Ad una mia richiesta, un anno dopo, di ritorno da Cervinia, dove in delegazione ero andato ad incontrare le ragazze al Campo-Scuola, mi dissero che mi avevano lasciato solo per vedere come sapevo reagire. Sono rimasto male di fronte ad una verità tanto spudorata, perché so di averci rimesso la faccia e di essere stato minacciato varie volte.      Quella solitudine mi aveva portato ad assumere una ragazza stipendiata, Marzia, per seguire i ragazzi con problemi, quando ero assente per la catechesi. L’avevo conosciuta in occasione dell’allestimento della mostra con i carcerati di San Vittore (la maggior parte erano terroristi delle Brigate Rosse) e lavorava nelle comunità di don Virginio Colmegna.       Così, per un po’ di mesi abbiamo potuto usufruire di una persona che garantiva una presenza educativa.     Proprio in quegli anni, iniziava in Diocesi, il dibattito per avere in Oratorio un educatore stipendiato.      Sarebbe ridicolo pensare che esistessero solo problemi. Le soddisfazioni non mancavano.      Ricordo la buona intesa con il sig. Luigi, che era un riferimento per i ragazzi più piccoli. Tutti dicevano che aveva una particolare somiglianza con don Bosco: “Certo! - dicevo io - È così buono che non può che assomigliare a don Bosco”.    Tra le soddisfazioni bisogna aggiungere anche un Centro Giovanile numeroso, che si era formato con la Festa dei Giovani, l’anno precedente il mio arrivo. Erano tanti. E da quell’insieme sono sorti i Gruppi di interesse, che in un primo tempo erano rappresentati dagli Amici del Sidamo (enorme, numeroso, al di là di ogni possibilità di discussione).       In seguito si è smagrito, suddividendosi in altri gruppi: così è diventato più attivo, determinato e testimoniale. Accanto a questo il Gruppo musicale, che animava le celebrazioni religiose e gli spettacoli.    

Naturalmente il GS Rondinella era già assestato da tempo, soprattutto sotto la spinta di don Remo Conti (per il quale ancora oggi si organizza un torneo).     Il Calcio e il Basket (anche femminile) allora la facevano da padroni. Si è aggiunta anche una società di pattini a rotelle, la “Peduzzi” (prima dell’avvento dei pattini con le rotelle allineate, c’era una campionessa europea).     In quegli anni è stato elaborato lo statuto del GS Rondinella con tanto di firma presso un notaio e l’ambito educativo di una società sportiva in Oratorio.        A questo si era aggiunta una riflessione sul ruolo degli associati e dello stile da trasmettere. Sono stati anche gli anni del Premio Torretta, che nel circuito sportivo ha valore nazionale.

 

Gli interventi
Primo obiettivo che mi posi fu il rafforzamento del Gruppo liturgico, perché le celebrazioni in chiesa avevano un riscontro estremamente importante. Le persone potevano notare immediatamente quali fossero gli obiettivi da raggiungere.     Da quel momento con il gruppo si è riusciti ad individuare - studiando le letture domenicali secondo il ciclo triennale - i gesti da compiere durante le celebrazioni, perché la liturgia potesse parlare ai ragazzi.
Così nacque il libretto dei canti e gli altri libretti che proponevano di domenica in domenica (appunto nel ciclo triennale) le letture bibliche secondo la traduzione interconfessionale.          Con piacere ricordo il canto dei ragazzi - spesso gridato - ai lati dell’altare: non occorrevano microfoni, soprattutto quando  venivano proposti i canti di don Bosco.   Così, se l’attenzione verso i ragazzi iniziava dal piacere di una liturgia brillante, per i giovani ci si indirizzò sui Gruppi di interesse. E allora nacquero il Gruppo fotografico, il Gruppo teatrale con il Teatro Ragazzi Andrea Di Marino (continua ancora con l’acronimo TRADIM), il Gruppo Nonviolento Rondinella (venivamo affrontati temi politici), il Gruppo Axe per l’inserimento dei disabili in Oratorio, il Gruppo Bosnia (associato con le ACLI per l’intervento a Velike Bloke), il Gruppo di redazione del Giornale “Davvero!” (stampato in 5.600 copie e registrato al Tribunale di Monza). Naturalmente continuavano  il gruppo musicale, il Sidamo e quello liturgico Di sera, in Oratorio, non mancava mai qualche gruppo di impegno e neppure gli appassionati al tavolo rotondo, in fondo al corridoio, dove si svolgevano partite infinite e gridate al “due”.
Esisteva anche un gruppo vocazionale, che non era pubblico, ma solo ad invito il “Gruppo del Cavolo”, nato con questo nome, perché non si sapeva come chiamarlo e poi è stata scoperta l’espressione del teologo Borel, collaboratore di don Bosco, il quale uscì con queste parole al continuo cambiamento del luogo, ai tempi dell’Oratorio volante: «I cavoli non diventano grossi se non si trapiantano». Qualche vocazione salesiana (ragazzi e ragazze) nacque all’interno del gruppo.
Tutto questo movimento fu alla base del Gruppo Cooperatori, che sorse al mio penultimo anno, soprattutto per motivare i giovani-adulti ad inserirsi nel civile e contemporaneamente per dar spazio ai giovani animatori, altrimenti questi ultimi non avrebbero avuto modo di responsabilizzarsi.
Sempre, attraverso questo gruppo, si rispose all’invito di don Gaetano - allora parroco, oggi Vescovo in Perù - di assumersi la gestione del Cinema-Teatro Rondinella. E qui il racconto potrebbe dilungarsi se si dovesse narrare gli inizi (convocazione pubblica il 17 luglio 1996 sulle gradinate dell’Oratorio con l’adesione di oltre 60 volontari), il Festival “Rondirock” nel cortile dell’Oratorio (quante telefonate e minacce in quel giorno, terminate poi con l’arrivo della Polizia), la festa  “Musicineteatrando” nel settembre 96 con proiezioni, mostra di un artista della terracotta, marionette, clown, musica, rosticceria: tutto nel viale accanto alla Chiesa e al Cinema.     L’imperizia per questo compito era da spavento: tutto era da organizzare, dal macchinista (nessuno aveva la patente) al barettino, dai manifesti da esporre, ai turni. Per fortuna eravamo sostenuti dal Cinema “Anteo” di Milano, che ha dovuto ricredersi sul nostro volontariato.       
Anche la catechesi ebbe un salto di qualità. Prima era affidata direttamente al Parroco, che incaricava alcuni sacerdoti per seguire una classe di catechismo, ognuna formata da circa 7 gruppi. Con l’arrivo del parroco don Giuliano, gradualmente venne affidata all’incaricato dell’Oratorio.     In quegli anni si cominciava a dibattere sulla necessaria separazione dei ritmi scolastici da quelli della catechesi, per non indurre ragazzi e genitori a legare la scuola con la catechesi (un risvolto immediato: le vacanze scolastiche provocavano anche la sospensione della frequenza domenicale della messa).

Si incominciò a cambiare i nomi: non più maestra ma catechista, non più aula ma sala, non più classe ma gruppo. Descolarizzare la catechesi doveva essere uno scopo primario, affidando alle catechiste la preparazione dei contenuti e dei testi.  Ma ho sempre ritenuto essenziale per un cammino educativo “la quotidianità”.   Le feste sono importanti nella misura in cui si preparano e lasciano traccia dopo l’avvenimento.    Pertanto è la costanza di un impegno che qualifica la vita, anche quella di un ragazzo.     Ho scoperto, proprio nella ripetizione quotidiana di una esperienza, quanto questa incidesse sulle persone.     Il momento di incontro pomeridiano era alla base di questo stile educativo.
Lo presentavo ai ragazzi come l’intervallo di una partita, che si svolgeva sull’intero pomeriggio:  dalle 15.00 alle 16.30, dalle 16.45 alle 18.00 (18.30 d’estate).             Una sosta in una attività con una brevissima preghiera e un momento di raccordo della propria vita che voleva tener presente certamente l’Oratorio, ma anche la famiglia, la scuola, il tempo libero, il mondo  civile.  Sono stato esigente su questo punto, tanto che volevo che nessuno - né genitori né ragazzi - fosse in altro spazio se non sulle gradinate o in sala-giochi (d’inverno e quando pioveva). Credo che in dieci anni non abbia mai mancato a questo impegno se non 5 o 6 volte.
Se questo valeva per i ragazzi, ancora molto di più ritenevo necessario un tempo di riflessione e di preghiera per gli adolescenti e i giovani. Si svolgeva alle 19.00 in chiesetta oppure sulle gradinate con la preghiera dei vespri (siamo passati dal rito romano a quello ambrosiano) e la rivisitazione di situazioni quotidiane, non così breve come quella per i ragazzi. Per costoro venivano organizzati ritiri trimestrali e due Campi-Scuola (quello estivo, che era programmatico, e quello invernale, su tematiche emergenti).
Anche le vacanze estive - le Grandi Vacanze (GV) - diventarono un motivo di catechesi per coinvolgere il ragazzo all’interno di una problematica esistenziale. Sono stati elaborati alcuni testi (“Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson, “Perelandra” di Lewis, “Il piccolo principe” di Saint-Exupery, “Il trono di legno” di Sgorlon; la “Vita di Domenico Savio” preparato in Oratorio, il “Diario di don Umberto Bolis tra i poveri del Perù”, sempre preparato in Oratorio. Inoltre  nel 1988, centenario della morte di don Bosco, la parte contenutistica de “Il cortile dei sogni”, adottato da tutte le diocesi lombarde, è stato fornito dall’Oratorio.
Sorprese la proposta rivolta agli animatori di fare un regalo, costruito da loro, ai ragazzi che avevano partecipato alle Grandi Vacanze, perché questi ultimi avevano dato loro la possibilità di maturare e di responsabilizzarsi: «Senza i ragazzi non avreste avuto questa opportunità e sareste rimasti superficiali », dicevo loro.
Sono nati ciondoli lavorati con il traforo, flauti con le canne di bambù (per un mese il forno del bar puzzava per una essicazione rapida delle canne di bambù), i portachiavi con le mini-scarpette di calcio.  Anche con gli animatori si organizzavano le vacanze: un modo per rinsaldare il gruppo, vivere insieme per conoscersi e capirsi meglio, affrontare tematiche educative. Si incominciò con la biciclettata di 1.000 km tra le case salesiane di Lombardia, Emilia e Veneto, in mezzo c’è stata l’avventura di Alicante-Spagna e poi la scoperta della Sicilia.

 

Soddisfazione
Il mio disappunto manifestato all’inizio del mandato in Oratorio, al termine del primo anno, si era tramutato in piena adesione al progetto oratoriano.    Spesso mi succedeva di affermare che l’esperienza oratoriana doveva essere proposta ad ogni salesiano, senza la quale non era possibile capire la “mission”, cui siamo chiamati.   Pertanto ho ringraziato don Bosco - non il santo, ma l’Ispettore che mi ha inviato a Sesto -, per l’opportunità che mi ha dato.      Riconosco che l’Oratorio esige tanta forza fisica, tanta resistenza, ma anche duttilità, progetto, accoglienza, attenzione alla cultura, ma anche alla persone, capacità di far vivere l’esperienza religiosa accanto alla vita familiare e civile, condita  da un sano pluralismo provocatorio.   Quando di nuovo un Ispettore - questa volta don Francesco Cereda - mi chiese di lasciare l’Oratorio per andare a Brescia come direttore, feci molta resistenza: mi ci vollero tre colloqui e una lunga telefonata.     Ero stremato da quella proposta. Con Lavì andammo a prendere una birra o forse due - non ne bevevo più da vari anni - e me le sono scolate in un attimo.      Mi sono poi sdraiato sui gradini degli spalti. Così mi trovò mio fratello, che casualmente era venuto a trovarmi. Non volevo crederci: mi sembrava che quella “obbedienza” mi togliesse gran parte della vita. Poche volte ho pianto. In quel periodo mi successe varie volte (anche immediatamente prima di partire per Brescia, a Rota d’Imagna, durante l’ultimo Campo-Scuola).

 

Rapporto con la Comunità
Forse per carattere, ma anche come spinta ideale, non sono portato a carezze. Più facilmente alla rude verità. Ricordo di aver telefonato a casa di quattro ragazze, poco dopo il mio arrivo in Oratorio, per espressioni colorite in perfetto stile aresino.
Mi è successo di sbattere in faccia le mie provocazioni. Forse ho fatto male! Ma certamente sono riuscito a stabilire un “contatto caldo” con i ragazzi e con la gente.  Non posso dimenticare anche il pugno che mi ha mandato in ospedale con un labbro rotto e un piccolo trauma cranico.  Mi sono trovato attorno, proprio in ospedale, un gran numero di ragazzi.
Il giorno dopo - perché ho dovuto firmare, se volevo uscire subito dall’ospedale - appena ho visto il ragazzo responsabile dell’accaduto, l’ho chiamato, gli ho detto che lui avrebbe potuto venire ancora in oratorio, ma che non temevo di richiamarlo, qualora si fosse comportato in modo violento.   Nel pomeriggio, durante il momento d’incontro, ho detto ai ragazzi - ma avevo alzato il volume dell’altoparlante, perché mi sentissero anche i genitori dei palazzi circostanti - di dire ai genitori che  il prete dell’Oratorio era disponibile a prendere altri pugni pur di difendere i ragazzi dai prepotenti.
Penso di essere riuscito ad instaurare un rapporto forte con i giovani (spesso li confessavo, camminando lungo i cortili, mentre  altri giocavano).
Mentre con gli adulti, che ho voluto in Oratorio, ho fatto comprendere loro, che non fossero mai davanti ai ragazzi, forse in fianco, sempre dietro.    Ripeto: mi piaceva provocare.

Quando con i giovani abbiamo prodotto “il manifesto di politica”, le adesioni furono tante (i partiti politici - anche i sindaci di Sesto - venivano volentieri in Oratorio per discutere e accalappiare i ragazzi: non ci sono riusciti), ma anche i contrasti furono diversi.    Tuttavia nessuno ha potuto dire che l’Oratorio Rondinella era un luogo frivolo, superficiale e di perditempo.   Ero rimasto ammirato, quando ad Arese vidi scritto sulla maglietta dei ragazzi di Rho: «Io vado all’Oratorio da don Filippo».   Quella frase mi ha illuminato e tante volte dissi ai ragazzi: «Quando avremo il coraggio di firmare un documento o un manifesto da esporre in città con scritto ”Oratorio Salesiano Rondinella”, allora l’Oratorio non sarà più l’ambiente di cui vergognarsi, ma un orgoglio da esibire!».   Questo i ragazzi l’hanno appreso.        Venivo da Arese per celebrare un matrimonio a Sesto, poco prima di tornare come parroco. Ero in anticipo nei dintorni della Chiesa di don Bosco. Decisi di far una camminata per Via Saint Denis. Ad un tratto sentii: «Tu sei don Bosco amico nostro, amico  della gioventù».       Era proprio quel canto che i ragazzi urlavano in Chiesa. Vedendomi, non temevano di cantare un canto di chiesa per strada. Avevano vinto la vergogna di essere cresciuti in Oratorio!   Un giovane mi sollecitò, poco prima della partenza da Sesto, a scrivere un libro. Mi aveva anche dato il titolo: «Quei meravigliosi dieci anni». Meno male che non ho aderito al suo desiderio, altrimenti sarei qui, dopo anni, a vivere di nostalgia,  mentre la vita ti scappa via.

 

Il ruolo dell’incaricato dell’oratorio
Mi sono sempre ispirato alla frase di don Bosco: «Amate le cose che amano i ragazzi, se volete che essi amino quanto amate voi». Penso che in queste parole ci sia gran parte dello stile salesiano.      Per riuscire a stare con i ragazzi è necessario respirare con il loro stesso respiro, annusare quello che a loro piace. È un’ espressione - quella di don Bosco - che va bene per ogni genere di persona, perché se apprezzi quello che ognuno di loro ritiene importante, ti fai loro amico, scatta quella “complicità”,che ti fa stare dalla loro parte.      Pertanto il ruolo dell’incaricato dell’Oratorio certamente non può restare quello di un tempo, ma lo stile di vita sì. Certamente qualsiasi modalità verrà assunta, non potrà mai dimenticarsi della condizione di “stare con i ragazzi”.    Una partita di calcio - durante i mondiali è il massimo - vista con loro, forse non ti fa apprezzare lo schema, le triangolazioni, la visione di gioco, perché si grida, si urla, si sentono gli sfottò. Però si è con loro e si è contenti di loro, magari si fa un richiamo se si va sopra le righe.

Un tempo si era certamente più preoccupati della povertà materiale dei ragazzi (ma questa emerge ancora in tempo di crisi economica), ora la cultura potrebbe diventare l’antidoto per non farsi strumentalizzare dal più potente o da chi ha i mezzi per intervenire sulla tua vita quando e come vuole.
Ma sarà appunto la “passione” di stare con i ragazzi che farà individuare i mezzi per intervenire, quali iniziative intraprendere. Se fosse il contrario, i ragazzi se ne andrebbero, perché non basta essere “in” per attirare le persone. Se ti scoprono vuoto, si allontanano. 
È successo così a Gesù: ha intercettato i problemi dei discepoli di Emmaus e li ha resi entusiasti: non volevano più lasciarlo. L’hanno invitato a cena e poi non sono tornati più sulla strada, ma dai propri compagni (cfr. Lc 24,13-35).     Oratorio punto di aggregazione Don Bosco, quando vide in Piazza Statuto un gruppo di ragazzi che giocavano a soldi, studiò il  momento opportuno e con scaltrezza rubò questi soldi che erano lì al centro.
Di corsa, inseguito da quei ragazzi, si diresse verso l’Oratorio. Fece un po’ di scene in chiesa con il suo amico, il teologo Borel (la dice lunga sulla tranquillità della chiesa) e poi, sempre attorniato da quei ragazzi, che erano interessati ai loro soldi, diede loro una merenda e li invitò, consegnando il denaro, a continuare a giocare in Oratorio.     Quando trovi persone come don Bosco, riesci ad attirare anche i sassi.    L’Oratorio non è un luogo, ma sono le persone che lo abitano. Si realizza un “mix”, che non possiede nessun altra istituzione: preghiera e gioco, riflessione e teatro, confessioni e urla, attività e dialogo, allegria e serietà, ragazzi e giovani, bambini e adulti, mamme e nonni, musica e sport, chiesa e cortile, cultura e ricreazione, collaborazione e sostegno, rispetto e formazione.      È un ambiente aperto, che non teme chi sbaglia, perché c’è chi lo corregge; non approva il bravo che si disinteressa  dell’irruente, non loda l’adulto che toglie spazio al ragazzo, perché se l’adulto può esserci è solo per dar spazio al giovane. Se un giovane è protagonista, non deve sgomitare per crearsi il suo ambito educativo. Solo così si sentirà a casa sua, respirerà un’aria familiare. La grande sfida dell’Oratorio non è quella di aver delle norme da far osservare, ma quella di non allontanare mai quelli che disobbediscono.     Perché lo stile non è di fare una comunità di catari (= i buoni e i puri), ma di seguire il comportamento delPadre che «fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).      Sì, l’Oratorio ha vissuto le sue crisi, ma è sempre sopravvissuto ad esse. In tempo di contestazione l’Oratorio di don Claudio era fiorente, anzi non subiva defezioni verso altri luoghi ritenuti più validi.     Aveva ancora la forza di proporre qualcosa di valido.
Un ricordo particolare per Andrea Di Marino, un ragazzo vivacissimo, morto per una banalità e per avventatezza dei medici, che era talmente vicino all’oratorio che costrinse i suoi genitori a partire per le vacanze pasquali dopo “il giorno dell’amicizia”, che lui assolutamente non poteva perdere.
Sì, ricorderò sempre con piacere quei “giovedì santo”, quando la chiesa alle nove del mattino rigurgitava di ragazzi e di giovani. E poi fuori, per i cortili a giocare al “torneo volante” con il solo riposo di un panino a pranzo, per continuare a giocare fino alla messa con la lavanda dei piedi puzzolenti. Si concludeva la giornata in cortile con la finale.      Non è questa una evangelizzazione concreta? Il Signore si fa amico, perché amici sono coloro che mi sono accanto, non solo in chiesa, ma pure nel gioco.

 

                    don Nunzio                        

bottom of page